[Versione aggiornata a Luglio 2021]
Nonostante si legga sempre che gli allevamenti sono responsabili di una frazione tra il 15 e il 20% del totale delle emissioni antropiche di gas serra, la realtà è molto diversa: una stima più ragionevole dà il 40%, una percentuale pari a quella di tutte le emissioni dovute al bruciamento di combustibili fossili. Ecco perché.
Partiamo dal presupposto che il global warming è un fatto reale, ed è causato dall’uomo. Se il lettore avesse qualche dubbio sul fatto che il clima stia cambiando e che la causa sia l’attività umana e non un normale ciclo geologico, solare o quant’altro, può guardare qui, qui, qui, e qui.

A provocare il surriscaldamento dell’atmosfera è l’emissione, causata da attività umane, di gas serra. I due principali sono la ben nota anidride carbonica (CO2) e il meno discusso metano (CH4); ce ne sono anche altri, come il protossido di azoto, ma sono meno impattanti perché le emissioni sono molto ridotte; e poi c’è il vapore acqueo che in realtà è il gas serra più potente in assoluto, sul quale i gas menzionati agiscono come catalizzatori, cioè “rubinetti” che ne causano la maggiore o minore efficacia. Questi gas agiscono immagazzinando la radiazione che la Terra, dopo aver assorbito i raggi solari, emette nell’infrarosso, e redistribuendo l’energia in eccesso che ne deriva con le molecole di azoto e ossigeno che li circondano, scontrandosi con loro e aumentandone l’energia cinetica media – il che è quello che definisce la temperatura di un gas. Così, la temperatura dell’aria cresce (è già cresciuta di circa 1° rispetto alla media 1900-2000 e continua a crescere di circa 0.1° ogni decennio; se sembra poco, basta ricordarsi che per un sistema complesso come l’atmosfera ciò che conta è l’equilibrio, e che anche un piccolo spostamento costante può causare disastri).


Di anidride carbonica si parla parecchio, e certamente a ragione: negli ultimi 150 anni, rispetto all’epoca preindustriale in cui per centinaia di migliaia di anni era rimasta sotto le 300 parti per milione (ppm) di concentrazione nell’atmosfera (in particolare, praticamente costante a 280 ppm negli ultimi 2000 anni), è schizzata a 400 ppm, con una crescita esponenziale chiaramente dovuto alle attività industriali. È quindi sacrosanto il continuo accorato appello rivolto dagli ambientalisti per ridurre le emissioni di CO2, in particolare riducendo o azzerando il bruciamento di combustibili fossili.

Del metano, invece, non si parla quasi mai. Eppure, è un gas serra molto più potente dell’anidride carbonica, e la cosa è ben nota in ambito scientifico. Siccome però ne emettiamo molto meno della CO2 (quanto meno lo vedremo tra poco), non è facile capire che rappresenta una minaccia paragonabile a essa. Come possiamo fare a capire quale dei due gas è più dannoso?

La risposta è un numero che si chiama Global Warming Potential (GWP), che è definito come il rapporto tra il forzante radiativo causato da una certa massa di un gas e quello causato dalla stessa massa di anidride carbonica. Detto in altri termini: il GWP di un gas dice quante tonnellate di anidride carbonica causano lo stesso surriscaldamento dell’atmosfera causato da una tonnellata di quel gas. Il GWP viene calcolato analizzando le reazioni chimiche che un gas causa nell’atmosfera interagendo con gli altri gas presenti, e il conseguente eccesso energetico che si traduce in innalzamento medio della temperatura.

I rapporti ufficiali, vale a dire quelli pubblicati da organismi che fanno capo all’ONU e cioè l’IPCC e la FAO, adottano un valore standard che nel corso degli anni, con il migliorare delle ricerche, è passato da 21 a 28 per il metano (attualmente nuovi calcoli lo portano a 34). Quindi, secondo questi studi una tonnellata di metano fa gli stessi danni di circa 30 tonnellate di anidride carbonica. Si usa parlare di “tonnellate di CO2 equivalenti” per indicare il risultato della moltiplicazione tra la massa di gas realmente emessa e il GWP, che la trasforma nel corrispettivo di anidride carbonica. Già così fa impressione; ma se controlliamo quante tonnellate di anidride carbonica e di metano vengono emesse da attività umane all’anno, la stessa IPCC ci dice che sono rispettivamente 39.1 miliardi e 363 milioni. C’è, quindi, circa un fattore 100 di differenza: per cui – a spanne – se il metano è 30 volte più dannoso della CO2, ma ne emettiamo 100 volte meno, risulta che pur apportando un danno non trascurabile il suo contributo al global warming sembra minoritario – tra un quarto e un terzo del contributo della CO2.

Tutto risolto quindi? Nemmeno per idea. Perché manca un fattore fondamentale: la finestra temporale su cui viene calcolato il GWP. Dato che il numerino magico è ottenuto considerando le reazioni chimiche che un dato gas subisce e causa, è cruciale considerare per quanto tempo questo gas esista prima di decadere a causa di tali reazioni. Per convenzione, del tutto arbitraria, il calcolo viene effettuato su un tempo di 100 anni. Questo è del tutto ininfluente se si parla di CO2, che ha un tempo di vita medio di migliaia di anni: una volta immessa continuerà a fare danni molto a lungo (e questo deve certamente preoccuparci molto sul lungo periodo), e comunque in linea di principio va bene considerare cosa causi sull’orizzonte temporale di un secolo. Ma ora siamo in emergenza, e tutti gli studi ci dicono che abbiamo al massimo una decina d’anni per intervenire in modo massiccio per ridurre drasticamente il global warming. E, per coincidenza: dieci anni è proprio, all’incirca, il tempo di vita medio del metano.
Se oggi emettiamo una tonnellata di metano, tra 10-12 anni (in media) le molecole del gas avranno reagito con i radicali liberi dell’atmosfera, scomparendo (e in parte trasformandosi proprio in altra CO2, quindi continuando a fare danni). È quindi chiaro se se stimo il danno che quella tonnellata di metano farà in un intero secolo, commetterò una grave sottostima rispetto al danno reale che farà nei dieci anni in cui effettivamente sarà mescolata all’aria. E anche questo è ben noto ai ricercatori (anche a quelli della FAO): gli studi danno come valore per il GWP del metano calcolato su 20 anni un sorprendente 84-86, e un ancora più sconvolgente 105-120 per il GWP su 10 anni (a seconda delle stime). Quindi, una tonnellata di metano emessa oggi farà nei prossimi 10 anni lo stesso danno che causano circa 110 tonnellate di CO2.

Se quella tonnellata fosse l’unica emessa, potremmo stare tranquilli – farebbe danni per una decina d’anni, per poi sparire. Ovviamente, non è così che vanno davvero le cose: ogni anno emettiamo, come abbiamo visto, una media di 363 milioni di tonnellate di metano, perpetuando quindi il disastro.
A questo punto abbiamo tutti i numeri che servono per fare un semplicissimo calcolo. Ripartiamo dai numeri IPCC sulla massa di emissioni annuali di CO2 e di metano, rispettivamente 39.1 miliardi e 363 milioni di tonnellate. Se usiamo il GWP calcolato su 100 anni, diciamo 30, le tonnellate di CO2 equivalenti annuali di metano sono 363milioni x 30 = 10.9 miliardi. Ma se se usiamo, come è corretto, il GWP su 10 anni, risulta 363milioni x 110 = 39.93 miliardi: già così il metano supera la CO2 come dannosità in termini di emissioni globali!
Ma non è finita qui. C’è un ulteriore fattore da considerare, ed è che attualmente circa la metà dell’anidride carbonica immessa nell’atmosfera viene riassorbita in tempi molto rapidi dagli oceani e dalle foreste (circa il 25% gli uni e le altre). Non durerà così molto a lungo, perché questo riassorbimento ha un costo in termini di acidificazione dell’acqua e del suolo, e alla lunga acqua e alberi non saranno più in grado di riassorbire tutta questa CO2; ma per ora è ancora così. Sottolineo che invece non esiste un meccanismo simile per il CH4.

Quindi sulla breve scala temporale che ci interessa il vero danno della CO2 va (contando grossolanamente) diviso per due, perché solo metà della CO2 emessa resta nell’atmosfera a riscaldarla. E così, il metano è attualmente due volte più dannoso della CO2! Sembra incredibile, ma i numeri dicono questo. Detto in altri termini, se vogliamo intervenire in modo efficace e tempestivo sul global warming, l’azione più efficace che possiamo fare è tagliare le emissioni di metano più che quelle di anidride carbonica. Se smettessimo di emettere metano oggi, tra 10 anni la sua concentrazione atmosferica sarà più che dimezzata, restando attive solo le emissioni non antropiche; viceversa, se smettiamo di emettere CO2 oggi essa resterà comunque presente in atmosfera per millenni, e saranno necessari interventi di riassorbimento per far scendere il suo contributo al riscaldamento globale. Capito?

E a questo punto torniamo al punto iniziale, il collegamento tra zootecnia e clima. Gli allevamenti sono tra le prime cause di emissione di metano. Le emissioni enteriche dei bovini e la gestione del letame sono direttamente responsabili di circa il 31% delle emissioni antropiche totali di metano (da qui).
[Per inciso: e le auto a metano non inquinano? Inquinano, sì, ma non perché emettono metano – il metano è il carburante, viene bruciato e il motore emette anidride carbonica, come quello delle auto a benzina, ma in quantità un po’ minore.]
Se confrontiamo il dato sulle emissioni di metano degli allevamenti con quello secondo cui circa l’85% delle emissioni di CO2 sono dovute al bruciamento di combustibili fossili, e consideriamo anche che sempre secondo la FAO gli allevamenti contribuiscono anche circa l’8% delle emissioni dirette di CO2, il risultato finale è che da soli attualmente gli allevamenti causano, punto percentuale più punto percentuale meno, lo stesso danno delle emissioni dirette di anidride carbonica causate dai fossil fuels, su cui si concentra la totalità delle attenzioni dell’opinione pubblica e anche degli ambientalisti.
Ci tengo a sottolineare un punto importantissimo: IPCC e FAO sono a conoscenza di questi numeri! Ma per ora nicchiano, scrivendoli in piccolo in appendici di opuscoli, e magari iniziando a parlare della possibilità di migliorare i mangimi perché causino meno emissioni per fermentazione enterica.

Il conto che dobbiamo fare non è però ancora completo. Infatti, continuando a analizzare le fonti delle emissioni di metano si legge che i combustibili fossili contribuiscono per una percentuale simile a quella degli allevamenti (il 35% stando a Global Carbon Budget). Quindi, la “bilancia” dell’attività antropica avente il maggiore impatto climatico torna a pendere verso l’industria e i fossil fuels… Ma manca ancora un ultimo tassello.
Secondo uno studio pubblicato su Nature nel 2020, il passaggio a diete plant-based nella produzione globale di cibo entro il 2050 potrebbe portare a un sequestro da 332 (riduzione del 70% di alimenti di origine animale) a 547 (dieta vegana) di GtCO2, equivalenti al 99-163% delle emissioni di CO2 (consistenti con una probabilità del 66% di limitare il riscaldamento globale a 1.5°): e questo senza considerare tutto quanto scritto fin qui circa le emissioni di metano dirette causate dalla fermentazione enterica, e solo grazie al cambiamento dell’uso del suolo, lasciando che la vegetazione si riprenda i terreni attualmente adibiti a pascolo o a coltivazione di mangime. Considerando l’opzione vegana, le 547 GtCO2 su 30 anni (2020-2050) corrispondono a circa 18 GtCO2 all’anno, che attualmente possiamo includere nel bilancio che stiamo calcolando come una emissione “virtuale” che, se gli allevamenti non esistessero, sparirebbe del tutto. Quindi, concludendo i nostri calcoli, il risultato è:

Quindi:
– il metano è direttamente due volte più dannoso dell’anidride carbonica, e altrettanto dannoso se si considerano i potenziali riassorbimenti che non vengono attuati a causa dell’uso del suolo causato dagli allevamenti
– in termini di settore, gli allevamenti sono dannosi quanto il settore dei combustibili fossili e insieme le due attività causano l’80% dell’attuale tasso di riscaldamento globale antropogenico.
È fondamentale sottolineare che il riscaldamento globale proseguirà comunque nei prossimi decenni a causa dei gas serra che abbiamo già emesso, e che per invertire la tendenza ed evitare la catastrofe sarà (sarebbe) necessario rimuovere CO2 dall’atmosfera – esattamente quello che accadrebbe nello scenario analizzato in questo studio, in cui il passaggio a diete vegetali causa la rimozione di anidride carbonica grazie alla riforestazione spontanea che comporterebbe l’abbandono di pascoli e coltivazioni di mangimi.
A tutto questo, infine, aggiungiamo che gli allevamenti, sia intensivi che estensivi, devastano il territorio (circa il 40% di tutte le terre abitabili sono dedicate a allevamenti e pascoli), sono la prima causa di deforestazione, inquinano emettendo particolato, e comportano un ingente spreco di acqua (circa un terzo delle risorse idriche mondiali; per produrre 1 kg di carne di manzo sono necessari 15mila litri di acqua, l’equivalente di un mese di docce).
È importante sottolineare che tutto quanto detto finora vale sia per gli allevamenti intensivi che per quelli cosiddetti estensivi, cioè con gli animali al pascolo, e sia per gli allevamenti da carne che per quelli da latte. Infatti, un bovino emette la stessa quantità di metano per fermentazione enterica e per letame che pascoli libero o che sia rinchiuso tra quattro mura di cemento, circa la stessa area di terreno verrà devastata per fornirgli cibo (come erba o come piantagione per mangime), e la stessa quantità di acqua verrà usata per abbeverarlo e coltivare le piante di cui si nutre. Perciò, la favoletta degli allevamenti felici con le mucche al pascolo, oltre a essere una menzogna etica, è anche una sciocchezza dal punto di vista dell’impatto ambientale.
Infine, è bene puntualizzare che anche il tanto decantato consumo a “km 0” non risolve nulla dal punto di vista ambientale: un importante studio del 2018 ha mostrato chiaramente come i fattori che per la quasi totalità pesano sull’ambiente nella produzione di cibo sono proprio l’uso del terreno e le emissioni dovute a digestione e letame, mentre tutto il resto della filiera produttiva, dalla lavorazione all’imballaggio al trasporto, incide in minima parte sull’impatto finale.

Se questi numeri sembrano sorprendenti, è perché non abbiamo una idea reale del numero di animali che vengono allevati a scopo alimentare sul pianeta. Ogni giorno circa 3 miliardi di esseri senzienti vengono uccisi per essere mangiati. In epoca preistorica, la massa totale dei grandi mammiferi presenti sulla Terra era di circa 250 milioni di tonnellate, e si trattava unicamente di animali liberi, ovviamente. Oggi, più di un miliardo di tonnellate di biomassa è dato unicamente dai bovini, e circa 400 milioni di tonnellate sono altre specie di animali di allevamento. Altri 400 milioni di tonnellate siamo noi, i 7 miliardi e mezzo di esseri umani che popolano il pianeta. Solamente circa il 4% del totale della massa è dato, oggi, da animali selvatici liberi.

La conclusione di tutto questo lungo discorso è chiara. Tagliare drasticamente il consumo di carne e derivati animali è di gran lunga l’azione più importante che ciascuno di noi può mettere in atto per contrastare il global warming e tagliare il proprio impatto sul clima del pianeta e sullo sfruttamento delle risorse. Allo stesso tempo è fondamentale agire a livello politico per far sì che la produzione di cibo vegetale soppianti quella di cibo animale (mentre al momento ingenti finanziamenti pubblici sono ancora elargiti alla zootecnia).
È incredibile come il numero e la portata di ricerche scientifiche di primo piano che mostrano come il passaggio alla dieta vegetale sia l’azione più importante e efficace da fare subito per contrastare i cambiamenti climatici sia sempre più grande, e come al contempo i media e la politica sembrino del tutto ciechi all’evidenza.
“Ma se diventassimo tutt* vegan* bisognerebbe coprire il mondo di coltivazioni di soia e grano e saremmo messi peggio di prima!”, sento dire a qualcun*: no, non è così, come si capisce bene ad esempio leggendo qui.
In tutto questo, ho tralasciato volutamente il discorso etico circa lo sfruttamento e l’uccisione di miliardi di esseri senzienti ogni giorno.
Nel novembre 2020 ho parlato dell’argomento in una diretta Facebook del Centro Sociale Bruno, per Assemblea Antispecista, eccola:
https://www.facebook.com/centro.bruno/videos/415544376482802
In seguito sono stato intervistato da Global Project: leggi l’intervista qui.
Nella primavera 2020, durante il lockdown per Covid19, ho fatto due dirette Facebook, una per Climate Save Movement e una per Essere Animali, in cui ho parlato un po’ più per e steso di tutta questa faccenda. Sono abbastanza simili, le linko entrambe qui sotto.
https://www.facebook.com/climatesaveitalia/videos/2587974774819386/
https://www.facebook.com/268976423121377/videos/342297203383702/
NOTA: Nel 2019 avevo pubblicato un altro lungo post in cui analizzavo alcune ricerche circa il reale impatto dell’allevamento su inquinamento e global warming, secondo cui a seconda di quali fattori si considerino e come vengono stimati, la zootecnia potrebbe essere addirittura la prima causa in assoluto della crisi climatica. Il post qui sopra è una revisione più accurata di quanto ho scoperto studiando più in dettaglio l’argomento nei mesi successivi, e lo aggiorno ogni qual volta lo ritengo opportuno per includere nuovi dati o nuove puntualizzazioni.
Perché Licia Coló e Andrea Purgatori continuano inesorabilmente ad evitare le porole “carne” e “latte”?
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Controlla sul contatore di animali uccisi che ho linkato nell’articolo. Fai due conti, e vedi cosa esce.
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